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6 Gennaio 1914. Portolongone: Quel giorno, ancora una volta, scelsero di sperare

6 GENNAIO 1914, Portolongone

L’E­pi­fa­nia ha il sapo­re del­le cose per­du­te, l’o­do­re del pas­sa­to, il colo­re del­l’O­rien­te. Si per­de nel tem­po, anzi, va oltre. Tra­scen­de. L’ho sem­pre pre­fe­ri­ta al Nata­le, ai suoi con­ve­ne­vo­li, al suo gala­teo con­su­mi­sti­co. Già da pic­ci­no, a mio disca­pi­to: Bab­bo Nata­le por­ta­va rega­li, la Befa­na una cal­za con i dol­ciu­mi del­la Coop; avrà la tes­se­ra, ribat­te­vo con inge­nuo sorriso!
Una festa anti­ca l’ἐπιφάνεια, tra le più gran­di, che trae ori­gi­ne dal Van­ge­lo di Mat­teo. Pie­na, zep­pa di sim­bo­li e paro­le nasco­ste da sgu­scia­re come noci: la “stel­la”, i Magi, i tre doni.
Una festa che rie­sce a sca­ra­ven­ta­ti addos­so il peso degli anni, di sto­rie tra­man­da­te di gene­ra­zio­ne in gene­ra­zio­ne. Ed io che non le ho vis­su­te, mi limi­to a cat­tu­rar­ne il ricor­do e resti­tuir­gli paro­le e voce.
Il 6 gen­na­io, a casa mia (beh, dei miei “avi”, s’in­ten­de), ini­zia­va agli albo­ri. Il can­to del gal­lo avreb­be anti­ci­pa­to l’A­ve­ma­ria del cam­pa­ni­le e il vocio inter­mit­ten­te del­le don­ne che scen­de­van giù in pae­se, al for­no, per un po’ di pane fre­sco: alme­no quel giorno!
Così, in una tavo­la dov’e­ra rove­scia­to tut­to l’a­mo­re che una fami­glia potes­se dare, il bro­do di gal­li­na, cicer­chie ed erbe, un pez­zo di for­mag­gio e maga­ri la polen­ta del­la vigi­lia avreb­be­ro defi­ni­to (e solen­niz­za­to) il “gran” pran­zo del­l’E­pi­fa­nia. E per i tre figlio­li, qual­co­sa in più: man­da­ri­ni, frut­ta sec­ca e pre­zio­sis­si­mi bon bon di cioc­co­la­ta; con un po’ di car­bo­ne… per moni­to! L’in­do­ma­ni, di nuo­vo a lavo­ro. Cur­vi in bot­te­ga, a pie­di a far con­se­gne. Del­la scuo­la se ne dimen­ti­ca­ro­no pre­sto: giu­sto fino alla secon­da; ed anche là… a mor­si e bocconi.
Al vespro, inve­ce, drit­ti in chie­sa. La semio­scu­ri­tà del­la nava­ta dava risal­to all’al­ta­re mag­gio­re, coi suoi affre­schi, col suo lam­pa­da­rio in cri­stal­lo di Boe­mia. Cen­ti­na­ia di luci e poi can­de­la­bri d’o­gni altez­za, a deci­ne, dispo­sti in fila. Ruti­lan­ti, sfa­vil­lan­ti. Il gio­va­ne pre­te di Bib­bo­na tirò velo­ce: face­va fred­do quel­la sera. Dopo il tra­di­zio­na­le bacio al Bam­bi­nel­lo (ed in sot­to­fon­do “Hic ille rex est gén­tium”), il rien­tro a casa. Col fumo gela­to a mez­z’a­ria e il cie­lo stellato.
Mari­to e moglie festeg­gi­ro­no di nuo­vo. Festeg­gia­ro­no i 15 anni di matri­mo­nio, quel “sì” pro­nun­cia­to in un remo­to 1899, lei a 21 anni, lui a 33. Ragaz­zi e figli allo stes­so tem­po. Un tem­po bar­ba­ro, con la Guer­ra alle por­te, ma ric­co, tra­su­dan­te di sem­pli­ci­tà: mai bana­le e mai scon­ta­ta. Chi­me­ri­ca… al mon­do d’oggi.
Quel gior­no, anco­ra una vol­ta, scel­se­ro di sperare.

Fabri­zio Grazioso

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