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Quarant’anni fa ci lasciava Don Renato Cignoni

MARIA ROSA E DON RENATO…QUARANT’ANNI DOPO

Roma, dicem­bre 2017

Il clo­chard appar­ta­to a Furio Camil­lo, indif­fe­ren­te all’an­di­ri­vie­ni metro­po­li­ta­no, pare­va già bran­co­la­re nel­l’e­sta­si dei suoi pove­ri sogni. Pove­ri dav­ve­ro. Tri­sti e bagna­ti come l’a­sfal­to del­l’Ap­pia Nuo­va. Maria Rosa mi aspet­ta­va sot­to l’om­brel­lo, un po’ affa­ti­ca­ta dal­la bor­sa pie­na di libri (a set­tan­t’an­ni suo­na­ti, da esem­pio alla pigri­zia intel­let­tua­le, s’e­ra iscrit­ta alla Gregoriana).
Sape­va che ero a Roma e vole­va salu­tar­mi. E lo fece davan­ti a una piz­za (lei) e ad una gri­cia (io). Il risto­ran­te, qua­si sti­le “mid cen­tu­ry”, era semi­vuo­to, con un’am­pia vetra­ta che dava sul­la stra­da; auto­mo­bi­li come for­mi­che, cit­ta­di­ni come auto­mi: di cor­sa, affan­na­ti, inti­riz­zi­ti. A lei c’è lega­ta la mia fami­glia, e quin­di anch’io. E visto che m’e­ro mes­so in testa di rac­con­ta­re (e scri­ve­re) la sto­ria più recen­te del pae­se, ascol­tar­la non fu dif­fi­ci­le. Non esi­ste­va un copio­ne di regia e da un argo­men­to si pas­sa­va diret­ta­men­te a un altro. Sen­za tre­gua, sen­za inter­rom­pe­re. L’u­ni­ca ecce­zio­ne, per il des­sert. ‘Fer­ra­ie­se nata nel­le cam­pa­gne di Rio per sfug­gi­re alla Guer­ra, lega­ta indis­so­lu­bil­men­te alla memo­ria del fra­tel­lo, don Rena­to, in real­tà avreb­be for­se volu­to dar­mi qual­che drit­ta sul­l’am­bien­te roma­no, lei che c’e­ra arri­va­ta più di tren­t’an­ni pri­ma per lavo­ra­re nel­la dire­zio­ne del­le Poste Ita­lia­ne. Fu un caso — dis­se — che abbia accet­ta­to la nomi­na, attac­ca­ta com’e­ro alla fami­glia, ad una sem­pli­ci­tà che vale­va più dell’oro zec­chi­no. La pro­po­sta le arri­vò tra capo e col­lo nel­la tar­da pri­ma­ve­ra dell’ 83; sul­l’or­lo del rifiu­to, fu inve­ce il fra­tel­lo a spin­ger­la ad accet­ta­re per­ché “il futu­ro non ha cer­tez­ze ed io non so per quan­to anco­ra sarò qua”. Lei non ci dor­mì per gior­ni: il “sì” avreb­be san­ci­to il distac­co, per­lo­me­no mate­ria­le, da casa, dal­la gen­te, da un’esistenza che sem­bra­va potes­se con­ti­nua­re in eter­no. Ma nul­la avvie­ne per caso. Dopo nep­pu­re due mesi don Rena­to morì. Già, ma dopo aver­la avvia­ta ad un’altra vita: la sua. Oggi qual­cu­no su FB ricor­da che sono pas­sa­ti quarant’anni esat­ti dal­la sua scom­par­sa. Oggi “Miche­le del bar” — che la chie­sa man­co con bino­co­lo — mi ha (ri)parlato di quest’uomo. Del resto fu il pri­mo a cor­re­re in cano­ni­ca la not­te del 4 ago­sto ‘83. Un’ultima par­ti­ta a ten­nis e poi la mor­te. A 48 anni. Par­ro­co di Por­to Azzur­ro dal ‘66, inse­gnan­te di reli­gio­ne alle scuo­le medie (n.d.r. “nota o noc­chi­no?”), fun­ga­io­lo, tifo­so dell’U.S.P.A. e spor­ti­vo al tem­po stes­so, ami­co dei gio­va­ni, ma soprat­tut­to Uomo. Così, dal nul­la, mi son tor­na­te alla men­te le paro­le di Maria Rosa che anco­ra ripen­sa all’an­go­scia del fra­tel­lo per un sogno che fece due gio­ni pri­ma del “viag­gio”. Lo tur­bò. Non ne vole­va par­la­re. Ma for­se lo pre­sen­tò diret­ta­men­te ad un pae­se. Al dot­to­re che non poté far altro che atte­sta­re l’i­ne­lut­ta­bi­le abbrac­cio del­la mor­te (e di un ami­co è anco­ra peg­gio), ad una madre lor­da di fede, ai redu­ci d’una tra­gi­ca not­te d’a­go­sto. Per loro, la più lunga.
Per ovvie ragio­ni ana­gra­fi­che non pre­sen­to epi­so­di per­so­na­li, ma cer­to pos­so dire che la testi­mo­nian­za di que­st’uo­mo è un con­cer­to. E le bel­le per­so­ne van­no ricor­da­te. Per­ché fan­no par­te del nostro pas­sa­to. Per­ché fa bene, semplicemente.

Fabri­zio Grazioso

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