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Manchette di prima

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Manchette di prima

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L’ Ultima Pasqua assieme di un 2 Aprile 1939 a PortoLongone

Pasqua è tem­po di rina­sci­ta. Del­la not­te che lascia posto all’alba.
E tale cer­tez­za non sareb­be venu­ta meno nean­che con la Guer­ra alle porte.
Al pri­mo sole, l’odore del­la lavan­da sel­va­ti­ca, col­ta l’altro ieri su per Mon­ser­ra­to, sci­vo­lò dal­la cas­set­tie­ra del “can­te­ra­le” e avvol­se coper­te, fede­re e cusci­ni. L’effluvio irrup­pe nel­la sala da pran­zo e là cer­cò gra­ti­fi­ca­zio­ne nel­la pro­zia vedo­va sedu­ta innan­zi alla fine­stra con un libro chiu­so tra le mani: da ceca sape­va leg­ge­re solo con la mente.
Pasqua era alle por­te e le tre cam­pa­ne del Car­mi­ne annun­cia­va­no la pri­ma mes­sa de Le Pal­me, cele­bra­ta da quell’omaccione di padre Otta­via­no, cap­pel­la­no del For­te, “cor­ret­to­re spi­ri­tua­le” d’ergastolani e ladri di galline.
Il gol­fo di Por­to­lon­go­ne era splen­den­te: onde ruti­lan­ti e brez­za leg­ge­ra ne incre­spa­va­no la “soglia”.
Set­te basti­men­ti in atte­sa del­la par­ten­za riu­sci­ro­no a disper­de­re nel pae­se un’accozzaglia di marinai.
Ver­so sera i con­ta­di­ni ave­van già lega­to all’albero un ramo­scel­lo bene­det­to: por­ta bene, dice­va­no. Ne era­no con­vin­ti, fie­ra­men­te convinti.
L’incandescenza dei riti avreb­be poi segui­to un fit­to calen­da­rio d’impegni: il Gio­ve­dì San­to, la cor­sa in Chie­si­na con il vaso più bel­lo per ador­na­re il Sepol­cro. Il Vener­dì, al buio, con fiac­co­le e lam­pio­ni, in pro­ces­sio­ne a segui­re il Cri­sto e un’Addolorata che pare­va muo­ver­si dav­ve­ro, pro­tet­ta dal suo man­to di tul­le cor­vi­no e dal­le gio­va­ni “prio­re”. E poi la ban­da, colon­na sono­ra d’altri tem­pi, d’un rito che aleg­gia tra fasci­no e miste­ro, tra la vita e la morte.
Il silen­zio del Saba­to sareb­be dura­to poco, fino a mez­zo­gior­no: già, si can­ta­va la Risur­re­zio­ne con dodi­ci ore d’anticipo!
A Pasqua la (mia) fami­glia si strin­se a tavo­la con le pie­tan­ze miglio­ri, quel­le cuci­na­te all’alba, con l’olio con­ser­va­to (man­co fos­se un cime­lio) da alme­no tre mesi. L’aroma d’in corol­lo fug­gì per i “cran­chio­ni”, s’incrociò con altri, in un atto d’amore gene­ro­so e spie­ta­to. Era festa, festa per tut­ti. E al bam­bi­no che ave­va reci­ta­to a memo­ria la poe­sia stu­dia­ta all’Istituto di Via Cer­bo­ni, un uovo bene­det­to per ricom­pen­sa. Altro che cioccolata!
Ora quei geni­to­ri incon­tra­ti nel rac­con­to dell’Epifania son gran­di: lui 74, lei 62. Due non­ni che di lì a un anno avreb­be­ro visto par­ti­re per la Guer­ra il nipo­te più pic­co­lo. Per poi per­der­lo… a cau­sa di una stra­nis­si­ma malat­tia. Fu l’ultima Pasqua assie­me. Non lo sape­va­no. E visto che quei salu­ti non han colo­re, bel­li come pochi man­gia­ro­no sor­ri­den­ti bri­cio­le e moz­zi­co­ni di felicità.

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