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Manchette di prima

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Manchette di prima

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Addio a Franco Piga

Quan­do era­va­mo anco­ra dei par­go­li, pas­sa­va­mo le mat­ti­na­te esti­ve ai giar­di­net­ti a gio­ca­re a pal­li­ne, vab­bè biglie di vetro, ma per noi era­no le palline.
Capi­ta­va spes­so mi man­cas­se qual­che spic­cio­lo per com­pra­re quel­le che ave­vo per­so al gio­co o che aves­si dimen­ti­ca­to di pren­de­re le chia­vi di casa pri­ma di uscire.
Per for­tu­na mio bab­bo lavo­ra­va in posta, distan­te solo pochi metri e al biso­gno face­vo capo­li­no all’ingresso degli uffi­ci dove smi­sta­va­no la corrispondenza.
“Fede­ri­chi­no sei venu­to a cer­ca­re bab­bo? vie­ni den­tro, che hai per­so que­sta vol­ta?“, così mi acco­glie­va nel­la sua stan­za Fran­co, il diret­to­re, un uomo alto e io pic­co­lo che ci spa­ri­vo sot­to, dall’aspetto ele­gan­te e auto­re­vo­le e con una voce bel­la, impor­tan­te, cal­da, dove le paro­le veni­va­no scan­di­te, qua­si inter­pre­ta­te, come fan­no con la natu­ra­lez­za acqui­si­ta i dop­pia­to­ri del cinema.
“Si, ma non vedo il moto­ri­no fuo­ri” (un Fan­tic Motor Roc­ket per l’esattezza).
“Sarà anco­ra in giro… per tener­lo fer­mo in uffi­cio andreb­be lega­to alla sedia” e si face­va una risa­ta, men­te mi posa­va la mano sul­la testa a scom­pi­gliar­mi i capel­li. “Met­ti­ti sedu­to qui, che vedrai tra poco arri­va “. Infat­ti nel giro di pochi minu­ti il suo­no incon­fon­di­bi­le del Fan­tic lo precedeva.
A vol­te se ritar­da­va mi lascia­va curio­sa­re (non toc­ca­vo nul­la) tra quel­le let­te­re impi­la­te in ordi­ne alfa­be­ti­co negli scom­par­ti di que­gli arma­di così igno­ran­ti che se l’avesse visti al tem­po Ing­var Kam­prad, avreb­be inven­ta­to all’istante un Kal­lax per le poste. “Osser­va il lavo­ro, anche se ora sei pic­co­lo è tut­ta espe­rien­za che entra”.
Un pen­sie­ro a Fran­co il diret­to­re del­la posta, a Fran­co che bab­bo sti­ma­va e pure io, a Fran­co che diri­ge­va il coro del­la chie­sa, a Fran­co anche lui un pez­zo del­la nostra Por­to Azzur­ro, e un abbrac­cio a Pao­lo e Fran­ca Maria da tut­ti noi dell’edicola.

Fede­ri­co Regini

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