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San Giacomo, Patrono recluso ( da sempre )

Chi è anda­to oltre al cate­chi­smo ele­men­ta­re sa bene qua­le sia sta­ta la sor­te del figlio di Zebe­deo, di quel pesca­to­re di Betsai­da chia­ma­to Gia­co­mo, Gia­co­mo il Mag­gio­re. Apo­sto­lo, Mar­ti­re e dun­que San­to. In Spa­gna, sin dal­l’al­to medioe­vo, dopo la bat­ta­glia di Cla­vi­jo, la sua ricor­ren­za è un gior­no di tri­pu­dio. Gli echi di tan­to cla­mo­re e le note gre­go­ria­ne che lo inco­ro­na­ro­no patro­no del­la Peni­so­la Ibe­ri­ca — lo sap­pia­mo — giun­se­ro anche qua, a Longone.
Quan­do la Spa­gna di Filip­po III mise pie­de all’El­ba per avvia­re la costru­zio­ne di quel­la che sareb­be sta­ta l’ul­ti­ma for­ti­fi­ca­zio­ne — in ordi­ne di tem­po — del cele­bre “Esta­do de los pre­si­dios de Tosca­na”, non ci pen­sò due vol­te a tito­la­re la pri­ma chie­sa del luo­go, sor­ta nel cuo­re del­la cin­ta mura­ria, pro­prio a Sant Yago: la sua pre­sen­za è atte­sta­ta già dal 1612, seb­be­ne l’e­di­fi­cio che ades­so cam­peg­gia dal lon­ta­no, qua­si fos­se una silen­zio­sa sen­ti­nel­la del mare, è sta­to com­ple­ta­men­te rico­strui­to, per volon­tà di Filip­po V, nel 1720.
Mura spes­se, bat­tu­te dal ven­to, in una peren­ne lot­ta col sole ed il sal­ma­stro. Mura che da 130 anni han­no impa­ra­to a cono­sce­re la nostal­gia, ad assa­po­rar­la, a far­ne incet­ta. La chie­sa del For­te è sta­to il pri­mo luo­go in cui un bam­bi­no ven­ne rin­vi­go­ri­to dal­l’ac­qua bat­te­si­ma­le, in cui un uffi­cia­le pre­se moglie, in cui i sol­da­ti salu­ta­ro­no il capi­ta­no per l’ul­ti­mo, eter­no viag­gio. Anco­ra ades­so quel pavi­men­to ne acco­glie cin­que, coi loro bla­so­ni (e chie­de­te­lo alla Cec­chi­ni!), gli epi­gram­mi lati­ni, i bas­so­ri­lie­vi dal­la straor­di­na­ria raf­fi­na­tez­za aral­di­ca: i più atten­di­bi­li testi­mo­ni di quel pas­sa­to mili­ta­re e tumul­tuo­so che vis­se la nostra For­tez­za. Poi, dal­la fine del XVIII, un tar­di­gra­do decli­no: ormai il pae­se ave­va la sua chie­sa, quel­la del Car­mi­ne. Riot­te­nu­to un po’ di lustro con Napo­leo­ne, di nuo­vo il buio. Lon­ta­na dal­le vicis­si­tu­di­ni del popo­lo, offi­cia­ta sem­pre meno (pri­ma tut­te le dome­ni­che poi, fino al ’60, solo cin­que vol­te l’an­no), ha così anni­chi­li­to — silen­te — quel filo sot­ti­lis­si­mo che la uni­va alla “sua” Mari­na. Dal nome di un Apo­sto­lo, di una chie­sa (la matri­ce) a quel­lo di un Pre­si­dio. San Gia­co­mo, il “Patro­no reclu­so”, al di là d’una strin­ga­ta memo­ria litur­gi­ca (poco sen­ti­ta, nul­la in con­fron­to a “Mon­ser­ra­to”), è il “car­ce­re”, il suo For­te bastio­na­to. Un luo­go che è sì figlio del­la Coro­na di Spa­gna ma che per noi, ades­so, rac­chiu­de la “pena”, la deten­zio­ne, che for­se ci ripor­ta indie­tro con gli anni, che fa ricor­da­re i geni­to­ri, i non­ni, la loro divi­sa gri­gio­gno­la, una “Befa­na” par­ti­co­la­re, una foto­gra­fia opa­ciz­za­ta dal tem­po che fug­ge. San Gia­co­mo è un sal­to nel tem­po che può dura­re seco­li, oppu­re qual­che decen­nio, un mese, un gior­no. È vita che scor­re entro quel­le mura. E che ci acco­mu­na. Inesorabilmente.

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