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Manchette di prima

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Manchette di prima

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La provvidenza Mazz-iana. Chiacchierata con don Mazzi nel cuore dell’estate elbana 

Vener­dì 29 luglio 2022: 30 gra­di all’om­bra, for­no ven­ti­la­to al sole (ma sen­za corol­li e tor­te al cioc­co­la­to). Ore 18, una chia­ma­ta improv­vi­sa lan­cia un invi­to: “Que­sta sera devi veni­re a Capo d’Ar­co, c’è don Maz­zi che pre­sen­ta il libro”. Decli­no così la musi­ca di piaz­za e il super Mario a Cosmo­po­li — non sono in vena — e accet­to ben volen­tie­ri la voce prov­vi­den­zia­le. Il cli­ma di Vil­la Mel­li­ni è sere­no, come sem­pre. Un’oa­si di pace, lon­ta­ni dal caos, in cui a rige­ne­rar­ti è l’in­can­to del mare e del cie­lo; che al buon pre­te offre l’oc­ca­sio­ne del rilan­cio: “Ma dove lo vuoi tro­va­re Dio se non nel­la bel­lez­za del Creato?”

Un cena­co­lo d’uo­mi­ni e don­ne, tra cui noti gior­na­li­sti, asse­dia la tavo­la del rin­fre­sco: una spe­cia­li­tà die­tro l’al­tra, tra bat­tu­te e scam­bi d’o­pi­nio­ne col sacer­do­te di Vero­na. Pic­co­li­no, con un vol­to segna­to dal tem­po e… da un ‘cur­ri­cu­lum’ di tut­to rispet­to. Alle 21 ini­zia l’in­con­tro: luci sof­fu­se, pol­tron­ci­ne, sedie e cusci­ni in un salot­to ‘en plein air’. Alchi­mia, magia solo per que­sto. Il libro che don Anto­nio avreb­be di lì a poco rac­con­ta­to è la sua ulti­ma fati­ca let­te­ra­ria: “Gesù uomo vero” (Sol­fe­ri­no, 2022). Scrit­to a novan­t’an­ni suo­na­ti, ma con un lin­guag­gio tal­men­te gio­va­ni­le e imme­dia­to che dav­ve­ro spie­ga quan­to l’e­tà sia solo un nume­ro. Che ciò che con­ta è la testa, nul­l’al­tro (o qua­si). Ad intro­dur­lo, Gian­gia­co­mo Schia­vi, gior­na­li­sta che ne ha cura­to la pre­fa­zio­ne, già vice­di­ret­to­re de Il Cor­rie­re del­la Sera. Un dia­lo­go, una con­ver­sa­zio­ne pie­na, rit­ma­ta, incal­zan­te. Ora alle­gra, ora rifles­si­va. Dove in poco si è riu­sci­ti a deru­bri­ca­re il mon­do del­le appa­ren­ze — l’attuale -, in cui i valo­ri son sem­pre meno niti­di e quan­to mai imper­vi. Da stu­den­te ribel­le che pro­prio non sop­por­ta­va i reli­gio­si che ave­va per inse­gnan­ti, a “sacer­do­te lai­co”, com’e­gli ama defi­nir­si. Una con­ver­sio­ne matu­ra­ta per caso — anzi, per uno scher­zo del Signo­re (dixit) — quan­do si tro­vò, poco più che ven­ten­ne, a soc­cor­re­re dei bam­bi­ni allu­vio­na­ti, ad asciu­ga­re le lacri­me di chi ave­va per­du­to tut­to. Tut­to. “Farò il pre­te, anzi, il padre”. Con­ver­ti­to sul­la via di una Dama­sco ita­lia­na. Ecco, il libro par­te da qua. Ci pre­sen­ta un Gesù uma­no: non che voglia cade­re nel mono­fi­si­smo, ma quel­lo divi­no già lo si cono­sce col cate­chi­smo, dice ridac­chian­do. È il Cri­sto ribel­le, l’a­do­le­scen­te che si per­de a Geru­sa­lem­me (anzi, la visi­ta incu­rio­si­to, maga­ri assie­me agli ami­ci), che sfi­da con schiet­tez­za i mae­stri del Tem­pio, che ini­zia ad inter­ro­gar­si sul­la pro­pria iden­ti­tà. Ma è l’in­con­tro col Bat­ti­sta e la soli­tu­di­ne del deser­to che por­ta­no l’Uo­mo a sco­pri­re e cono­sce­re dav­ve­ro il sé Divi­no. Una ricer­ca comu­ne a tut­ti gli uomi­ni, di tut­te le epo­che e di ogni gene­ra­zio­ne. Una ricer­ca dif­fi­ci­le, ardua, essen­zia­le. È il Cri­sto che rivo­lu­zio­na la tra­di­zio­ne e “ren­de” Padre quel Dio lon­ta­no, onni­po­ten­te e onni­pre­sen­te del mon­do bibli­co. Un padre buo­no che per­do­na e dà pane ai figli, anche a quel­li “pro­di­ghi”. È il Cri­sto del­la stra­da. Vivo. E men­tre gli sguar­di segui­van le paro­le (sì, è pos­si­bi­le), Rosan­na Inver­niz­zi, la pri­ma­don­na che gli sie­de accan­to e che ci ave­va ospi­ta­ti nel suo ‘par­ter­re’, pren­de il micro­fo­no: con asso­lu­ta luci­di­tà e fran­chez­za ci rac­con­ta del suo incon­tro ‘adul­to’ con il “Mae­stro” di Naza­reth, a settant’anni. Di come si fos­se accor­ta solo allo­ra d’aver colo­ra­to in bian­co e nero la sua esi­sten­za, un’esistenza fat­ta di con­fort, affet­ti limi­ta­ti alla fami­glia e un sen­ti­men­to pove­ro. Par­la di come, a 93 anni, voglia risar­ci­re anco­ra la vita, di come lot­ti per miglio­rar­la, per fare quel ‘bene’ e quel ‘bel­lo’ che pri­ma non cono­sce­va. Par­la del suo pros­si­mo viag­gio (e là don Maz­zi stor­ce gli occhi). Par­la sin­ce­ra. E ce ne fos­se­ro in que­sto mon­do di per­so­ne sin­ce­re. Ecco, un altro valo­re che riem­pie la boc­ca ma così poco in pra­ti­ca. Poi qual­che inter­ven­to, le testi­mo­nian­ze dei col­la­bo­ra­to­ri elba­ni del­la fon­da­zio­ne Exo­dus, l’applauso e frut­ta fre­sca per ritem­pra­re il cor­po. Si fan­no le 22,30, don Maz­zi ci salu­ta. In giar­di­no sare­mo rima­sti una deci­na o poco più. Delingue

com­pre­so. Una chi­tar­ra sfre­ga il silen­zio del­la not­te, chie­de per­mes­so ai gril­li e incal­za: tre note, un rit­mo cono­sciu­to, incon­fon­di­bi­le: ‘Quel­la carez­za del­la sera’. Guar­do il cie­lo, le poche stel­le che si vede­va­no e pen­so. Lon­ta­no, l’eco del­le ulti­me paro­le del­la con­ver­sa­zio­ne esti­va: “Diven­ta adul­to colui che ha cer­ca­to, sco­pre e dà signi­fi­ca­to alla vita”. E per dar­le signi­fi­ca­to — spie­ga — si pas­sa anche attra­ver­so vie imper­vie, delu­sio­ni e sof­fe­ren­ze. Ma, come sem­pre, POST NUBILA, SOL!

Fabri­zio Grazioso

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