Skip to content

Manchette di prima

EDICOLA ELBANA SHOW

Quello che l'altri dovrebbero di'

Manchette di prima

BREAKING NEWS

Loreto express: Cronaca romanzata del recente viaggio longonese verso Loreto: due pullman, baci e abbracci

Alle tre e qua­ran­ta del mat­ti­no di saba­to 6 apri­le un via vai di fana­li illu­mi­na la not­te lon­go­ne­se: auto come for­mi­che s’accodano su per via­le Euro­pa, lo squas­sa­no. E poi rom­bi di trol­ley, risa moz­ze e voci inde­fi­ni­te a dipin­ge­re il gior­no che nasce. Sì, 84 per­so­ne d’ogni età sal­go­no sui pull­man (ben due) scru­tan­do­si l’un l’altra, cer­can­do d’intuire la fisio­no­mia del com­pa­gno di viag­gio affi­da­to­gli dal­la “sor­te”. Meta di quell’Armata Bran­ca­leo­ne di moni­cel­lia­na memo­ria, rispol­ve­ra­ta da un letar­go liser­gi­co dura­to fin trop­po, la bel­la Lore­to, dove il ver­de è più sme­ri­glio e l’azzurro più orien­ta­le. Sono 426 i chi­lo­me­tri che ci divi­do­no dal­la cit­ta­di­na mar­chi­gia­na, sono due le per­so­ne che c’hanno spin­to a par­ti­re, a stra­paz­zar­ci, a risco­prir­ci comu­ni­tà. O bene, già sape­va­mo d’esserlo, ma il ripas­so è sem­pre con­si­glia­to (defor­ma­zio­ne pro­fes­sio­na­le, ose­rei dire). Il caf­fè del­la pri­ma nave non ha il sapo­re del caf­fè, vien bevu­to per tra­di­zio­ne, per accor­da­re il suo­no del­le pri­me paro­le, per vin­ce­re l’eco del son­no inter­rot­to sul più bel­lo: e tut­ti, o qua­si, par­te­ci­pam­mo a quel rito. Ingur­gi­ta­ta la scu­ra liba­gio­ne, poi la tra­ver­sa­ta, il viag­gio. Fin qua tut­to bene, se non fos­se per la ritar­da­ta­ria che c’ha rag­giun­ti al volo e il tar­lo che con­ti­nua­va a tor­men­tar­mi d’aver lascia­to qual­co­sa in mac­chi­na. La pri­ma sosta al bar, su per il sene­se, un deli­rio bel­li­co: una tor­va super affa­ma­ta pre­se d’assalto il ban­co­ne, spol­ve­rò brio­ches (sen­za tra­la­scia­re le vega­ne) e fece “respi­ce­fi­ne” di focac­ce e tra­mez­zi­ni. La com­mes­sa assi­ste­va sgo­men­ta alla raz­zia, bar­ca­me­nan­do­si tra cas­sa e ban­co­ne, segnan­do­si con la cro­ce più del­la Romi­ti alla mes­sa di Pasqua. La fila per il bagno non ve lo dico: un’ora e die­ci d’orologio. For­se sareb­be sta­to più como­do il “gran­de pra­to ver­de” alla Moran­di innan­zi al pun­to di risto­ro. Anti­che leg­gen­de dico­no che qual­cu­nA ne abbia dav­ve­ro usu­frui­to. E ha fat­to bene!
La pri­ma tap­pa del­la nostra gita\pellegrinaggio furo­no le Grot­te di Fra­sas­si, uno dei per­cor­si sot­ter­ra­nei più affa­sci­nan­ti al mon­do. L’immersione, tra sta­lag­mi­ti e sta­lat­ti­ti, ha inter­rot­to lo scor­re­re del tem­po, scoor­di­na­to lo spa­zio, distor­to la pro­spet­ti­va: nel cuo­re del­la ter­ra ci sen­ti­va­mo ospi­ti inde­gni, pic­co­li e indi­fe­si innan­zi a tan­ta gran­dez­za. Colo­ri e for­me nuo­ve. La cat­te­dra­le sot­ter­ra­nea chie­de­va silen­zio, e al suo respi­ro un po’ tut­ti c’adeguammo.
Dopo il pran­zo, così dol­ce­men­te annac­qua­to da un vino cam­pa­gno­lo, il karao­ke sul pull­man “San­re­mo” e lo show di Nuc­cia (che ad aver­lo sapu­to c’era da far paga­re il bigliet­to alla stre­gua del Bracaccio).
Arri­va­ti a Lore­to, ci siste­mam­mo in due alber­ghi dif­fe­ren­ti. Ad acco­glier­ci, uno scam­pa­nio inin­ter­rot­to, i colo­ri del­la pri­ma­ve­ra e il pro­fu­mo di un rac­co­gli­men­to che oggi – ubria­chi di caos – abbiam per­du­to, nasco­sto nel­la sof­fit­ta del­la nostra spi­ri­tua­li­tà. Suor Sil­via e Suor Maria­stel­la c’aspettavano in piaz­za. Un’attesa dura­ta cin­que mesi. Uno ad uno, poi a fiot­ti, c’avvicinammo a loro, tra abbrac­ci, risa e carez­ze. Occhi gon­fi e tan­to da dire. Cer­to non si aspet­ta­va­no così tan­te per­so­ne, di vede­re che pure Mir­na, Con­cet­ta e Fran­ce­sco s’erano imbar­ca­ti per venir­le a salu­ta­re, vin­cen­do il fre­no degl’anni e degli acciac­chi. E con loro, a rie­qui­li­bra­re il varie­ga­to (ama­re­na) del grup­po, anche i più gio­va­ni come Mar­ta, Cate­ri­na, Fran­ce­sca, Lupo etc. E alla fine, con Suor Gem­ma, l’abbraccio più lun­go, più sof­fer­to. Insom­ma, tut­te per­so­ne tran­si­ta­te nel­la loro vita e rima­ste imbri­glia­te a quel sor­ri­so, a quell’amore mater­no ver­sa­to per oltre vent’anni. Il vol­to, beh, è segna­to da una feri­ta che anco­ra but­ta san­gue, gli occhi feli­ci. Solo il pas­so è più len­to. Il cam­pa­ni­le del­la Basi­li­ca rin­toc­ca le set­te e mez­za, il caril­lon suo­na il “Sal­ve Regi­na” e accom­pa­gna le tre suo­re al bel­ve­de­re. Il cie­lo è infuo­ca­to, il tra­mon­to un qua­dro impres­sio­ni­sta. Si sie­do­no su una pan­chi­na, guar­da­no oltre, cucio­no ricor­di. Ed io die­tro, in silen­zio, che foto­gra­fo quel­la sce­na di un’intimità uni­ca che avreb­be fat­to impaz­zi­re il buon Fel­li­ni, che vibra di tene­rez­za, di poe­sia, tra “esu­li pen­sie­ri” e “vespe­ro migrar”.
Con­su­mam­mo la cena tut­ti assie­me e il gior­no dopo ci ritro­vam­mo al San­tua­rio per la mes­sa del­le 10, offi­cia­ta dal Vesco­vo dio­ce­sa­no e con­ce­le­bra­ta dai fra­ti e dal “nostro” don Mat­tia, che se n’era par­ti­to pure con le costo­le incri­na­te, ben con­scio che nel suo pull­man (la “Cor­ri­da”) avreb­be dovu­to anche sop­por­ta­re le lita­nie di Rosan­na, che pian pia­no – e per for­tu­na – sta tor­nan­do la soli­ta di prima.
Poi, col rispet­to che meri­ta, visi­tam­mo la “San­ta Casa”, pro­prio quel­la di Maria, di Naza­reth, giun­ta in Ita­lia al tem­po del­le cro­cia­te e rico­strui­ta con dovi­zia di par­ti­co­la­ri. Una Madon­na Nera di comu­ne memo­ria scru­ta­va i pel­le­gri­ni, acco­glie­va, da madre, le loro pre­ghie­re (*e mi sia con­sen­ti­to dire che se l’edificio non è crol­la­to all’ingresso del Delin­gue, per un mil­len­nio può anche dispen­sa­re dal­le pro­ve antisismiche)!
Dopo di che, a zon­zo per Lore­to, a improv­vi­sar­ci turi­sti nei bar, ad acqui­sta­re sala­mi e a ten­tar la for­tu­na in qual­che tabac­che­ria. Il pran­zo del­la dome­ni­ca fu l’occasione per salu­ta­re di nuo­vo, e ancor più for­te, le suo­re, che se ne rien­tra­ro­no in Isti­tu­to col­me d’affetto, di pen­sie­ri­ni giun­ti dall’Elba e di una pia­no­la che Suor Sil­via aspet­ta­va in glo­ria per poter ripren­de­re a suo­na­re per­ché, come lei sostie­ne, “non è mai trop­po tar­di per fare ciò che ci pia­ce”. Rober­to atte­se il caf­fè, Rober­ta scat­tò le ulti­me foto, Maria tar­dò a sali­re: vole­va goder­si que­gli atti­mi fino in fon­do, come il bim­bo che lec­ca il fon­do del piat­to e il con­ta­di­no che aspet­ta il buio per lascia­re la cam­pa­gna. L’arrivederci pesò di nuo­vo come un maci­gno, ma che que­sti due gior­ni sareb­be­ro tra­scor­si velo­ci già lo si sape­va. A con­so­lar­ci nel rien­tro, comun­que, fu la viva cer­tez­za d’aver por­ta­to un po’ di gio­ia a chi ha fat­to par­te del­la nostra vita: è l’aver dimo­stra­to loro che tut­to scom­pa­re, ma non il bene. Per­ché l’amore non pas­sa mai: è eter­no, è Dio, direb­be l’evangelista Giovanni.
Bru­nel­la e suor Gem­ma, da buo­ne inse­gnan­ti, fece­ro l’appello sui rispet­ti­vi pull­man: tut­ti pre­sen­ti, si ripar­te! Può ripren­de­re il con­cer­to; e que­sta vol­ta ci pen­sò Lucia a cari­ca­re il grup­po. Come da copio­ne, per­dem­mo la nave del­le 20,30 per un sof­fio (di ponen­te) e ci toc­cò atten­de­re le 22,20 al McDonald’s che, scher­zo del desti­no, pul­lu­la­va d’una man­dria inde­fi­ni­ta di figlio­li (tut­ti squa­dra­ti con occhio cli­ni­co dal buon Bor­zi­no, che se non fos­se sta­to per la nipo­te se ne sareb­be scap­pa­to sul pull­man… sen­za cena)!
Arri­vam­mo a Lon­go­ne, sfat­ti e “scian­ca­ti”, poco pri­me di mez­za­not­te. Ma sic­co­me dove­va­mo con­clu­de­re in bel­lez­za, cer­to non pote­va man­ca­re il clas­si­co scam­bio del­la vali­gia: la mi’ zia rima­se sul piaz­za­le, con un bor­so­ne da uomo che non era il suo, attor­nia­ta da paren­ti e sorel­le, “pian­gen­do” le bel­le com­pe­re che s’era fat­ta quel­la dome­ni­ca. Pur sen­za Poi­rot, la ricer­ca del col­pe­vo­le durò poco: in mezz’ora il Delin­gue ave­va già ricon­se­gna­to la refur­ti­va, con una visi­ta ocu­li­sti­ca rega­la­ta­gli dal buon cuo­re del­la par­roc­chia. ‘Ite mis­sa est’, repli­cò don Mat­tia, resti­tuen­do­ci alle nostre case, pron­ti a tirar le som­me dell’avventura.
Oltre la cro­na­ca, c’è poco da dire: cer­te cose biso­gna viver­le. I bei ricor­di non sbia­di­sco­no mai. E que­sto sta­te pur sicu­ri che rimar­rà eter­no, can­di­do, là dove in pochi han­no acces­so. Come mi son tro­va­to più vol­te a ripe­te­re, ricor­da­re è “ritor­na­re al cuo­re”: e dal cuo­re nes­su­no che v’è entra­to poi rie­sce ad andar via; e Por­to Azzur­ro l’ha dimostrato.
Una radio lon­ta­na fischia il suo moti­vet­to, anal­ge­si­co alla fiu­ma­na dei pen­sie­ri: “Doma­ni è un altro gior­no, si vedrà”. Ornel­la docet!

Fabri­zio Grazioso
*Arti­co­lo trat­to dal set­ti­ma­na­le “TOSCANA OGGI — La Traccia”

Rispondi