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Endometriosi: Una su dieci è mia famiglia

“L’endometriosi è attac­ca­ta ai pas­si di mia figlia. E’ par­te di mia figlia. Gra­zie a chi ha capi­to, gra­zie a chi si sta impe­gnan­do per soste­ne­re la dia­gno­si e anti­ci­pa­re il per­cor­so di cure, a chi vuo­le rom­pe­re il silen­zio, gra­zie a que­ste per­so­ne oggi mia figlia e la sua endo­me­trio­si cam­mi­na­no a testa alta con orgo­glio. ”
Non rac­con­to nien­te di nuo­vo se dico che l’attimo in cui pren­di in brac­cio tua figlia per la pri­ma vol­ta lo ricor­di per sem­pre. Io ricor­do la pau­ra, la gof­fag­gi­ne, l’emozione, il peso del­la nuo­va respon­sa­bi­li­tà. E’ indi­scu­ti­bil­men­te un’immensa gio­ia accom­pa­gna­ta però anche da una feli­ce sen­sa­zio­ne di ina­de­gua­tez­za. Quan­do ci pen­so sor­ri­do e mi rive­do gio­va­ne a cul­la­re lei e le mie pau­re.
Ogni vol­ta che la pren­de­vo in brac­cio da pic­co­la mi sen­ti­vo poten­te, for­te. Ave­vo la pre­sun­zio­ne che tra le mie brac­cia mia figlia sareb­be sta­ta sem­pre al sicu­ro. Scom­met­to che tan­ti come me in quell’abbraccio abbia­no fat­to la mia stes­sa pro­mes­sa: “Non ti acca­drà mai nien­te di male”. E quan­do lo dici, ci cre­di non ti sfio­ra nean­che l’idea che non pos­sa esse­re così.
Al con­tra­rio, del­l’ul­ti­ma vol­ta in cui si rie­sce a pren­de­re in brac­cio una figlia inve­ce nor­mal­men­te non si ricor­da nien­te. Cre­sce impa­ra a cam­mi­na­re sul­le pro­prie gam­be e non ti sal­ta addos­so cor­ren­do­ti incon­tro. Quan­do comin­cia a tirar­la su con fati­ca, sei tu stes­so a dire: “no basta mi fa male la schie­na, ora sei gran­de”.
Io inve­ce le ulti­me vol­te le ricor­do tut­te, quel­le che spe­ra­vo fos­se­re le ulti­me vol­te. Le potrei elen­ca­re. Ricor­do bene le tele­fo­na­te, le cor­se a scuo­la, in pale­stra o a casa di un’amica. La sce­na è sem­pre la stes­sa: lei che pian­ge pie­ga­ta, con­tor­ta da un dolo­re sco­no­sciu­to, che non ha anco­ra un nome. All’improvviso den­tro di lei si accen­de un inter­rut­to­re o si spe­gne, que­sto anco­ra non l’ho capi­to, e il dolo­re la inve­ste, cor­po e ani­ma. Si get­ta­va a ter­ra e non ave­va più nien­te del­la sua riser­va­tez­za ado­le­scen­zia­le, il pani­co sovra­sta­va il pudo­re e lei era total­men­te pos­se­du­ta da quel­la sof­fe­ren­za fisi­ca. Veni­va strap­pa­ta a momen­ti del­la sua gior­na­ta, alla quo­ti­dia­ni­tà del­la sua età, così sen­za pre­av­vi­so, ma soprat­tut­to sen­za spie­ga­zio­ne medi­ca. E io cor­re­vo a pren­der­la e la tira­vo su per­ché era inca­pa­ce di cam­mi­na­re.
Io oggi mi rive­do con mia figlia in brac­cio a per­cor­re­re il cor­ri­do­io del­la scuo­la, ed è un cor­ri­do­io lun­ghis­si­mo. Mi vedo all’ingresso del­la pale­stra, lo vedo affol­la­to da per­so­ne che come me non capi­sco­no. Nei ricor­di rifac­cio le sca­le di casa dell’amica e le ricor­do infi­ni­te. Il peso che sen­ti­vo e sen­to non era il peso del suo cor­po, era il mio enor­me sen­so di impo­ten­za. Un grop­po allo sto­ma­co per il suo dolo­re e anche per gli sguar­di del­le per­so­ne che assi­ste­va­no a que­gli epi­so­di. Io chie­de­vo con­si­gli ad ami­ci, ci rivol­ge­va­mo a pro­fes­sio­ni­sti e nes­su­no ci ha real­men­te aiu­ta­to. Ero pre­oc­cu­pa­to e non aven­do una spie­ga­zio­ne medi­ca, mi sen­ti­vo addos­so il peso di tan­te paro­le, det­te for­se anche per ras­si­cu­ra­re. Fra­si tipo “Ma non sarà un po’ esa­ge­ra­ta?”, “Ma non deve fare que­ste sce­ne a quell’età, ti devi impor­re”, “Sof­fro­no tut­te per per le mestrua­zio­ni all’inizio”, “For­se cer­ca atten­zio­ne e voi la asse­con­da­te un po’ trop­po”, “il suo è un males­se­re socia­le”.
Mi sen­ti­vo ina­de­gua­to, la pren­de­vo in brac­cio e scap­pa­vo via con lei. Ma quel­la pre­sun­zio­ne che ave­vo, basta un abbrac­cio e tut­to il male del mon­do scom­pa­re, cede­va di fron­te alla real­tà.
Di fron­te al dolo­re di una figlia si è tut­ti ina­de­gua­ti e sia­mo sem­pre impre­pa­ra­ti. Fin­ché non abbia­mo dato un nome a quel­la pre­sen­za che muo­ve­va i fili del­la vita di mia figlia, mi sono logo­ra­to di doman­de inu­ti­li: per­ché, come è pos­si­bi­le, cosa ho sba­glia­to.
Dopo la dia­gno­si di endo­me­trio­si, pos­so dire di esser­mi sen­ti­to sol­le­va­to, ma solo in par­te. Sono sol­le­va­to per­ché mia figlia ha comin­cia­to a rice­ve­re le cure che la stan­no aiu­tan­do. Scom­met­to però che, se non fos­se suc­ces­so a me, anche io avrei avu­to gli stes­si pen­sie­ri. Avrei det­to le stes­se fra­si ad un padre che mi rac­con­ta del­le cor­se con­ti­nue per anda­re a pren­de­re la figlia, che sof­fre di dolo­ri cicli­ci a cui nes­sun medi­co tro­va una spie­ga­zio­ne.
Oggi io so e mi ver­go­gno, per­ché ammet­to che una voce den­tro mi dice­va che for­se sta­vo vera­men­te sba­glian­do qual­co­sa nel­la sua edu­ca­zio­ne. Anche se con la madre era­va­mo sicu­ri che ci fos­se una spie­ga­zio­ne medi­ca, ave­vo il dub­bio che for­se nel nostro modo di voler­la pro­teg­ge­re, la sta­va­mo vera­men­te asse­con­dan­do e il suo era un “un male socia­le” del­la sua età. Mi è venu­to si que­sto dub­bio e non ce l’ho con chi oggi non si ren­de con­to del male che fa. Quel­le fra­si, paro­le che vole­va­no con­for­ta­re, han­no ali­men­ta­to il dolo­re.
Se un geni­to­re pren­de in brac­cio la figlia ado­le­scen­te, che non si reg­ge in pie­di dal dolo­re, non si dovreb­be pen­sa­re che il dolo­re sia nor­ma­le. Non si dovreb­be cer­ca­re il modo di ren­der­lo sop­por­ta­bi­le o tacer­lo, per­ché scon­ve­nien­te per la socie­tà.
L’endometriosi è attac­ca­ta ai pas­si di mia figlia. E’ par­te di mia figlia. Gra­zie a chi ha capi­to, gra­zie a chi si sta impe­gnan­do per soste­ne­re la dia­gno­si e anti­ci­pa­re il per­cor­so di cure, a chi vuo­le rom­pe­re il silen­zio, gra­zie a que­ste per­so­ne oggi mia figlia e la sua endo­me­trio­si cam­mi­na­no a testa alta con orgo­glio.
Oggi non han­no più biso­gno che le pren­da in brac­cio. Sono pron­to a far­lo però, per soste­ne­re mia figlia e quei geni­to­ri, che com­bat­to­no con­tro “mali invi­si­bi­li”. Nel­la loro lot­ta fat­ta di silen­zi e dif­fi­col­tà, c’è una voglia di cam­bia­re il modo di vede­re il dolo­re, che mi riguar­da. Mi riguar­da libe­ra­re del­le don­ne come mia figlia dal sen­so di col­pa, per­ché riten­go che que­sta sia l’u­ni­ca sua sof­fe­ren­za che io come geni­to­re pos­so leni­re.
Oggi l’unico males­se­re socia­le che cono­sco è l’indifferenza alla sof­fe­ren­za altrui.

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