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Manchette di prima

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Manchette di prima

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Maestra Giovanna…ci mancherai

Gio­van­na Neri, la mia mae­stra, si si, lo so, anche lei quan­do poi mi rivi­de nel ruo­lo di geni­to­re esor­dì con: Ste­fa­no ( era­no anni che non mi sen­ti­vo chia­ma­re col mio nome vero) ma che hai fat­to?? Ma quan­to sei ingras­sa­to?? Ma pote­vo imma­gi­na­re che mi diven­ta­vi cosi? Eri tan­to carino.
Quan­do aron­za­vo il mi figlio­lo Edoar­do lei appa­ri­va dal nul­la e mi richia­ma­va all’ ordi­ne: Ste­fa­no, non esa­ge­ra­re, maga­ri tu fos­si sta­to come Edoar­do, alla tua mam­ma la face­vi ammattì.…
Bel­lo il ricor­do di Umber­to Maz­zan­ti­ni, ho rivi­sto quel­la mae­stri­na che nei pri­mi anni 80 ven­ne a Lon­go­ne ed era con tut­ti dol­ce e amorevole.
Ciao Mae­stra, nel­la mia gene­ra­zio­ne e in quel­le che ci sono suc­ce­du­te, hai lascia­to in tut­ti un pia­ce­vo­le ricordo.

Que­sto il post su Face­book di Umber­to Mazzantini:

Scri­ve­re di Giovanna

Scri­ve­re di Gio­van­na è dif­fi­ci­lis­si­mo, per­ché è come scri­ve­re di me, del mio dop­pio e del mio con­tra­rio. Ma lo fac­cio per­ché ora, men­tre la pian­go, non pos­so fare altro.

Non mi ricor­do quan­do ci sia­mo cono­sciu­ti, pro­ba­bil­men­te poco dopo il suo appro­do all’Elba, nel faro-castel­lo di Focar­do appol­la­ia­to sugli sco­gli, gio­va­ne spo­sa di Costan­ti­no, il nuo­vo fari­sta. For­se ci incro­ciam­mo per­ché lei allo­ra era del­la Lipu e si occu­pa­va di rapa­ci feri­ti e del­fi­ni sfor­tu­na­ti, io ero già di Legambiente. 

Pro­ba­bil­men­te non ci pia­cem­mo: lei ele­gan­te e un po’ snob, figlia uni­ca e aman­te del­le divi­se, io tra­san­da­to e pro­le­ta­rio, secon­do di 4 figli, som­moz­za­to­re che traf­fi­ca­va con tubi che sca­ri­ca­va­no liqua­mi in mare. Lei vive­va in un castel­lo, io era appe­na usci­to da una casa di due stan­ze dove fino ai pri­mi anni ‘70 non esi­ste­va l’acqua cor­ren­te e il gabi­net­to. Per un mira­co­lo fat­to di sto­rie fami­lia­ri era­va­mo tut­ti e due di sini­stra, per una coin­ci­den­za era­va­mo tut­ti e due ambientalisti. 

La nostra ami­ci­zia, che sareb­be diven­ta­ta incrol­la­bi­le – di quel­le che tut­to per­do­na­no — comin­ciò così: da una lon­ta­nan­za che sem­bra­va incol­ma­bi­le. Io pun­tua­le, lei così sem­pre in ritar­do che una vol­ta si pre­sen­tò a un con­gres­so di Legam­bien­te — anco­ra in Sali­ta Napo­leo­ne a Por­to­fer­ra­io — con 4 ore di ritar­do e, tro­va­ti­ci che scen­de­va­mo le sca­le dopo aver discus­so del mon­do ed elet­to il nuo­vo diret­ti­vo, ci dis­se can­di­da come un giglio e con il biri­gnao sac­cen­te che assu­me­va quan­do vole­va nascon­de­re un tor­to: «Come, ve ne anda­te di già?». 

Gio­van­na era magra magra, non met­te­va car­ne addos­so – cosa che io so fare mol­to bene – e dopo la mor­te di Costan­ti­no diven­tò qua­si tra­spa­ren­te, sem­bra­va che il ven­to che sof­fia a Focar­do potes­se por­tar­si via quel­la don­na piu­ma, ma Gio­van­na vola­va col ven­to, era una piu­ma d’acciaio, sbal­lot­ta­ta dall’emicrania e dal­le malat­tie che si anda­va a cer­ca­re, inson­ne, ma indistruttibile, 

E Gio­van­na era a vol­te feli­ce in quell’eremo fat­to di mura anti­che che cir­con­da­no una casa bian­ca ber­sa­glia­ta dai ful­mi­ni, pri­ma con i sui vec­chi cani e poi cir­con­da­ta da gat­ti e gab­bia­ni, dal­le ron­di­ni dal­la gola ros­sa che nidi­fi­ca­no sul for­te, dal fal­co pel­le­gri­no che abi­ta alte­ro la garit­ta scian­ca­ta a pic­co sul mare, dove seco­li fa gli spa­gno­li face­va­no la guar­dia al loro pic­co­lo domi­nio di Por­to Lon­go­ne, di fron­te a For­te San Gia­co­mo che poi sareb­be diven­ta­to un car­ce­re dove gli uomi­ni sogna­no la liber­tà per­du­ta, guar­dan­do l’atro faro che illu­mi­na la not­te e il mare nero di Mola. 

Per Gio­van­na quel for­te era la sal­vez­za e la male­di­zio­ne, luo­go infe­sta­to di peri­pe­zie e di gua­sti sen­za per­ché, di avven­tu­re che nar­ra­va – con un filo di iro­ni­ca esa­ge­ra­zio­ne (ma alla fine cre­den­do­ci anche lei) — su Face­book, incas­san­do i miei incre­du­li com­men­ti e l’invito ripe­tu­to ad andar­si a fare benedire. 

Sì, per­ché, Gio­van­na era una gat­ta che tira­va fuo­ri zan­ne e arti­gli inso­spet­ta­bi­li non appe­na qual­cu­no la cri­ti­ca­va ma che, come mi dis­se Costan­ti­no una vol­ta, io e Ser­gio Ros­si era­va­mo gli uni­ci che pote­va­no mal­trat­ta­re, con­trad­di­re, dir­le bru­tal­men­te che sta­va sba­glian­do di gros­so. Un per­mes­so dato­ci taci­ta­men­te che a vol­te usa­va come tera­pia, tenen­do­ci ore al tele­fo­no a discu­te­re di un’avventura sba­glia­ta nel­la qua­le si era but­ta­ta, o di una per­so­na del­la qua­le si era fida­ta e che l’aveva fre­ga­ta, non rin­gra­zian­do­la nem­me­no per i sol­di pre­sta­ti e mai ritornati. 

Gio­van­na, mal­fi­da­ta con chi non le pia­ce­va e inge­nua fino all’incredibile con tut­ti gli altri, era la datri­ce di lavo­ro di una dome­sti­ca tamil che non ha mai fat­to le puli­zie a For­te Focar­do, ma alla qua­le ha paga­to per anni i con­tri­bu­ti per­ché non venis­se rispe­di­ta nel Kera­la. Gio­van­na non capi­va più nien­te non appe­na si discu­te­va di uno dei suoi bim­bi di scuo­la – per lei tut­ti per­fet­ti e intel­li­gen­tis­si­mi, anche quel­li che a un pri­mo sguar­do mi ricor­da­va­no le tep­pe con le qua­li face­vo ghen­ga da pic­co­lo — ed esse­re sta­to un suo alun­no deve esse­re sta­ta un’esperienza dav­ve­ro fan­ta­sti­ca: una mae­stra che comin­cia­va sem­pre dal pro­gram­ma mini­ste­ria­le e lo abban­do­na­va qua­si subi­to, sci­vo­lan­do in rac­con­ti, fia­be, sto­rie, e crea­va un modo fan­ta­sti­co che riem­pi­va la clas­se di fan­ta­sia, ani­ma­li, dra­ghi uni­cor­ni e diva­ga­zio­ni sul tema e poi su uno cen­to e mil­le temi. Gio­van­na era una bra­va mae­stra, ado­ra­ta dai suoi bimbi. 

Gio­van­na era chiac­chie­ro­na e can­gian­te come il mare che par­la inces­san­te­men­te, a vol­te cal­mo, a vol­te incaz­za­to e spu­man­te schiu­ma e sal­ma­stro, sugli sco­gli neri di Focar­do, inson­ne e irre­quie­to come lei, e che tut­to a un trat­to si pla­ca sot­to la luna pie­na, incre­spa­to solo da un bri­vi­do costan­te di ven­to che spin­ge onde tut­te ugua­li nel­la stri­scia d’argento tra l’acqua e il cie­lo. E dor­me, insie­me ai del­fi­ni, ai gat­ti sui let­ti e i diva­ni e alle ron­di­ni nei nidi e al fal­co sul­le mura. 

Ma Gio­van­na era for­se in real­tà il pas­se­ro soli­ta­rio, bel­lis­si­mo e abba­glian­te di blu, che un gior­no scel­se For­te Focar­do per fare la sua altez­zo­sa com­par­sa. Un fol­let­to elet­tri­co che guar­da­va il mare e il gol­fo, che vigi­la­va sul mon­do e sul tem­po, ere­mi­ta volon­ta­rio come lei, in un posto fuo­ri dal mon­do dove la not­te è scan­di­ta dai giri lumi­no­si del faro. 

E ora che il pas­se­ro blu è rima­sto padro­ne del For­te, for­se una pic­co­la incar­na­zio­ne anco­ra ter­re­na del­la castel­la­na bion­da, spe­ro pro­prio che il Dio e il Gesù in cui Gio­van­na cre­de­va le abbia­no riser­va­to una pal­la di vetro, di quel­le che scuo­ten­do­le casca la neve e che Gio­van­na col­le­zio­na­va. Una pal­la di neve con den­tro For­te Focar­do e un para­di­so dei gat­ti e dei cani neri. Un castel­lo sul­le nuvo­le dove rice­ve­rà, con il ser­vi­to buo­no, i cuc­chiai­ni d’argento e i bic­chie­ri di Mura­no gli ami­ci e gli amo­ri che ha per­so, in atte­sa che Lola, la sua gat­ta gemel­la ado­ra­ta, tra mil­le anni risal­ga a bal­zi l’arcobaleno e tor­ni a fare la regi­na nera, affu­so­la­ta e scon­tro­sa tra le sue brac­cia. Quan­do sarà la mia ora, se mi daran­no il per­mes­so, andrò a tro­var­la e chiac­chie­re­re­mo per l’eternità.

Umber­to

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