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Manchette di prima

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Hanno trasformato una eccellenza sociale Elbana come Ospedale di comunità in una stanza di promiscua solitudine

Fino a qualche mese fa il nos­tro Ospedale di Comu­nità era un fiore all’oc­chiel­lo del­la san­ità Elbana ed era l’or­goglio come assis­ten­za e uman­ità del­l’in­tera ASL Nord Ovest. Ques­ta strut­tura ERA, ora non più, una grande con­quista a liv­el­lo eti­co e di civiltà. Occu­pa­va una parte con­sis­tente del ter­zo piano del­l’ospedale e pote­va con­tare infer­mieri e Oss esper­ti e con una cer­ta propen­sione ad assis­tere gli anziani. L’accesso veni­va richiesto dal medico di famiglia e pote­vano essere ricoverati pazi­en­ti sen­za lim­i­ti di età con prob­lem­atiche san­i­tarie non risolvi­bili a domi­cilio. Qua­si uni­co nel suo genere, il nos­tro Ospedale di Comu­nità ave­va al suo inter­no l’Hos­pice per per­sone con malat­tie pro­gres­sive sen­za prob­a­bil­ità di gua­ri­gione per cui sono nec­es­sarie ter­apie pal­lia­tive del dolore. Con l’hospice si real­iz­za­va non solo un servizio di alta qual­ità med­ica, ma anche un sup­por­to di val­ore umano per le per­sone e le loro famiglie nel doloroso peri­o­do del fine vita.

Con l’e­mer­gen­za COVID ques­ta Unità Ter­ri­to­ri­ale di grande aiu­to sociale è sta­ta inseri­ta nel­la mega e uni­ca unità mul­ti­dis­ci­pli­nare che oltre all’Ospedale di Comu­nità com­prende med­i­c­i­na, orto­pe­dia, chirur­gia, psichi­a­tria e area carcer­aria in una mescolan­za di pazi­en­ti con varie patolo­gie.

Quel­lo che fu un van­to del­la nos­tra san­ità si è ridot­to ad avere uomi­ni e donne in fase ter­mi­nale nel­la stes­sa stan­za sen­za più infer­mieri e Oss ded­i­cati. CHE TRISTEZZA.

LA COSA GRAVE è che a questi malati ter­mi­nali (no COVID) di quel­la mis­era stan­za, negano anche l’ul­ti­mo abbrac­cio dei figli, nipoti e par­en­ti per­ché è autor­iz­za­to ad entrare solo un con­giun­to.

Siamo con­vin­ti che ques­ta poca uman­ità sia gius­ta? Anche sedati i malati ter­mi­nali cer­cano con lo sguar­do stan­co e appan­na­to l’ul­ti­mo sor­riso dei pro­pri affet­ti che non trovano.

Francesco Semer­aro.

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